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Old chensamurai
Guest
Se ne stava lì, in piedi, di fronte a quel vecchio specchio ingiallito dal telaio di legno, crivellato dalle tarme. La stanca luce fioca di una vecchia candela, illuminava la piccola stanza da letto che si trovava sul lato est della grande casa. Sparpagliati sul pavimento, gettati alla rinfusa, c’erano libri di matematica, di geometria, di letteratura inglese, d’arte moderna, di musica barocca e di filosofia. La lettura, era il vero amore di Maria. Maria non poteva, davvero, fare a meno dei suoi libri; li cullava, li accarezzava, li coccolava, li amava e loro, amavano lei, rivelandogli, come per incanto, paesaggi pieni di meraviglia, mondi inattesi e storie avvincenti di eroi e di seducenti eroine. Anche ora, dritta in piedi, nuda, davanti allo specchio, Maria leggeva. Leggeva sé stessa. Soppesava e misurava. Soppesava ogni grammo del suo corpo ridotto ad uno straccio lacerato e misurava ogni centimetro della sua pelle sofferente e biancastra. Da mesi, oramai, non faceva che questo. Non sapeva proprio più che fare. Quella grammatica e quella sintassi della carne, pur ridotta al minimo, non le piacevano. Quel testo fatto di ossa e sangue, le sembrava davvero troppo pesante. Troppo presente. Troppo ingombrante. Bisognava alleggerirlo, consegnarne, almeno una parte, alla non presenza, al non essere. Annullarlo. C’era un solo modo per farlo: digiunare. La mortificazione della gola, l’avvilimento della fame, era la strada da percorrere e, quando necessario, vomitare, rivoltare lo stomaco, rovesciarlo. Quella che un tempo era una dentatura perfetta, oggi, appariva completamente sgretolata, scavata, logorata. Il sorriso di Maria, era il sorriso di una vecchia strega. Ma che importava? L’importante era correggere quella partitura stonata, quella musica disarmonica, quell’ eccesso di note carnali dissonanti messe nel modo sbagliato, nel punto sbagliato, ad occupare una spazio sbagliato. Ma non c’era niente da fare; quel “troppo” non voleva cedere! la battaglia, sembrava persa. La sconfitta si mostrava, lì, in quell’immagine riflessa dal vecchio specchio ingiallito, conficcato in un telaio di legno, diventato pasto per le tarme. Nonostante gli inumani sacrifici di Maria, l’essere non si lasciava domare ed era sempre troppo presente, troppo partecipe, troppo attuale. Quel corpo, nella sua superflua vitalità, si ostinava con la sua presenza, ad ingombrare, irriducibilmente, lo spazio, ad occuparlo, a insudiciarlo, a imbrattarlo. Uno spazio sporco. In fin dei conti, pensava Maria, non vorrei altro che essere come quella vecchia candela. Consumarmi, lentamente, ridurmi, diminuirmi, rimpicciolirmi fino al punto da poter librarmi nell’aria, con un soffio di vento. Quella candela, che in cambio, per giunta, prodiga la luce. Trasformare l’essere in un bagliore raggiante, splendido e radioso. La materia, buia ed ingombrante, che si tramuta nella leggerezza di un raggio di luce. Quest’idea, quest’ossessione, s’impadronì di Maria e la condusse, prendendola per mano, alla completa negazione dell’essere. In una tersa serata primaverile, Maria rinnovò il suo corpo in un sacro cero. Scese nel cortile della vecchia casa e si diede fuoco. Bruciò, lentamente, svogliatamente, in silenzio. Tutte quelle parole sgrammaticate, quella incerta sintassi carnale, quelle note d’ossa e sangue in lacerante disaccordo, si fecero luce, sfavillio, lucerna del desiderio di immaterialità. Finalmente, lo spazio era sgombro, netto, svuotato, liberato, ripulito. Finalmente, la buia ed ingombrante pesantezza della materia era cessata. Quel foglio di carne si dissolse ingollato dalle fiamme. Ogni centimetro di quel testo denso, dolente, inerte e pesante, venne revocato in fumo. Non rimase, di Maria, che la luce, in viaggio verso l’infinito, verso chissà quali occhi che, ora, potranno leggere un testo leggero e fugace. Lieve come un raggio di sole nel cielo primaverile.
Come voleva Maria.
Come voleva Maria.